Ieri, 25 marzo, nella Giornata nazionale dedicata a Dante Alighieri, tantissimi sono stati gli eventi per ricordare e rileggere anche in chiave attuale Dante Alighieri a 700 anni dalla sua morte. Iniziative che per l’emergenza che stiamo vivendo hanno assunto prevalentemente forma virtuale, come “virtuale” è il “viaggio” di Dante nell’aldilà!
Mille le chiavi di lettura, le forme e i canali comunicativi.
Tra i tanti eventi di ieri protagonisti indiscussi sono stati i medici e infermieri di Firenze, che hanno voluto dare un messaggio di speranza citando il sommo poeta: “E quindi uscimmo a riveder le stelle”. A loro si è unito anche Dario Franceschini, ministro della cultura: “In fondo, lui stesso – ha detto Franceschini riferendosi naturalmente a Dante – ci ha indicato la strada quando alla fine del lungo viaggio all’Inferno ha concluso con ‘e quindi uscimmo a riveder le stelle’. Ecco, arriverà in fretta il momento in cui potremo uscire a rivedere le stelle: tornerà la musica nelle piazze, torneranno gli spettacoli teatrali, torneranno i festeggiamenti”.
Ma a questi ricordi, oggi aggiungiamo, e riprendiamo, la nostra riflessione su cultura e food (leggere Dante 2° su Gustoh24) scegliendo la strada del cibo e della comunicazione di alcuni aspetti forse meno noti e legati alla figura e alla fama del Sommo Poeta.
La forte sua presenza nella nostra memoria e nella cultura è certificata dalle infinite pubblicazioni sulla sua opera, dai monumenti a lui dedicati, dalle vie e dalle piazze, dalle numerose Fondazioni, Istituti e “Case” intitolate a Dante, fino alla recente piattaforma digitale Dante Global. La sua risonanza è documentata da illustrazioni di artisti famosi e non, di vignettisti e grafici pubblicitari, da un vasto mondo anche fuori dalle sedi accademiche e dagli studi eruditi e che fanno di lui oltre al “Signore dell’Altissimo Canto” quasi una POP Star, un simbolo tout court, un testimonial (come diremmo oggi) del sentimento culturale identitario degli italiani. Se ne servì anche Olivetti nel 1912 per pubblicizzare la sua macchina da scrivere! Il “pan degli angeli” (espressione ricorrente nel Convivio e nel II, 11 del Paradiso) che il poeta riferiva alle “schiere celesti … che vivono…nella contemplazione mistica”, è diventato sinonimo di torta, biscotti o lievito per dolci. In questo caso la ghiotteneria è quasi lecita perché è una golosità, anche se per Dante è una golosità di “beatitudine”!
Ancora una volta nel pellegrinaggio allegorico sognato dal Sommo Vate, il banchettare e il nutrirsi è elevato a gesto spirituale e il cibo acquista un significato solo simbolico. Ce ne dobbiamo fare una ragione.
La figura di Dante col naso adunco, il mento puntuto e la corona di alloro di cui è cinto il capo ( simbolo di quella “laurea poetica” che tanto desiderava senza poterla ottenere in vita) si presta a parodie e a trasposizioni anche in fumetto dell’opera sua maggiore. Neanche questo “patimento” gli è stato risparmiato!
lI più famoso disegnatore giapponese Go Nagai quando incontra il caposaldo della letteratura italiana lo trasforma in manga. Un prodigioso intreccio tra la cultura giapponese e quella occidentale, così diverse e lontane, che segna una tappa fondamentale nella storia del fumetto mondiale e nella divulgazione dell’opera del nostro Poeta soprattutto fra i giovani.
Neanche la Disney resiste alla magia della Commedia e pubblica fra il 1940 e 50 l’Inferno di Topolino (Dante) a fumetti.Una parodia dell’Inferno dantesco, con Pippo nei panni della guida – Virgilio, disegnata da Angelo Bioletto e sceneggiato da Guido Martina. La prima parodia della Disney realizzata in Italia e riprodotta nella nuova edizione per il Settecenario. Non mancano neppure l’Inferno di Paperino disegnato da Giulio Chierchini pubblicato su Topolino nel 1987, né le “strisce” esilaranti di Toninelli.
In Abruzzo lo storico Lunario, (cui abbiamo accennato nella prima parte) rende omaggio a Dante nel dialetto teatino “ Dante e l’Abbruzze a Settecent’anne da la morte”, con testi di Mario D’Alessandro e disegni del famoso illustratore umorista Lucio Trojano, nato a Lanciano in provincia di Chieti.
L’Alighieri ha immortalato con i suoi endecasillabi nella Commedia molti luoghi e personaggi ed alcuni anche di questa regione a partire dal poeta sulmonese Ovidio, lo storico e scrittore Pollione di Chieti, il Papa del “gran rifiuto” Celestino V, il poeta Sordello a cui dopo la battaglia di Tagliacozzo, nel 1261, Carlo d’Angiò concesse vari feudi in Abruzzo fra questi anche Castelli a Monteodorisio e a Paglieta. Altri riferimenti a Dante scorrono nei mesi del 2021 del Lunario, tra cui: Dante Gabriele Rossetti che nella sua pittura ha immortalato Dante e Beatrice, la storica Casa di Dante di Torre dei Passeri e di Tagliacozzo che non poteva non festeggiare il Dantedì, termine coniato dall’abruzzese Presidente emerito dell’Accademia della Crusca Francesco Sabatini, fissato al 25 marzo di ogni anno e nato il 18 giugno 2017 dal corsivo del giornalista e scrittore Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera.
Tornando al nostro avvincente narratore visionario, esiliato e costretto a vivere ai margini della generosità altrui, riesce a rovesciare la sua sconfitta esistenziale nel più grande trionfo poetico della Letteratura che varca confini, supera il tempo e far parlare ancora di sé tutto il mondo. Forse se dall’Empireo può vedere le tante celebrazioni in suo onore e ascoltare le parole di lode che vengono rivolte alla sua opera immortale, forse la Terra non gli appare più come “l’aiuola che ci fa tanto feroci” (Paradiso XXII, 151). Oppure, nonostante ciò, ci vede ancora “feroci” e lontani dalla “diritta via”, chissà! Sarebbe interessante sapere che cosa scriverebbe oggi! Chi manderebbe all’Inferno? Con quali mezzi comunicativi e linguaggi “social” si scaglierebbe contro i nuovi “peccatori”!
Nel Trecento fece una scelta “rivoluzionaria” quando anziché il latino usò il volgare, la lingua parlata dal vulgo, per le sue opere maggiori, operando una sorta di unità d’Italia ante litteram. Leggere e rileggere il suo capolavoro dà una sensazione di movimento in cui anche il tempo si dissolve e offre la piacevole occasione, quanto mai vitale in questo periodo, di immaginare infiniti luoghi e spazi, di incontrare varia umanità e di elevarci oltre la paura. Anche se l’illustre poeta non ci allevia le pene con i piaceri della tavola, lo perdoniamo e troviamo comunque “gustoso” ricordarlo e ricordare che proprio nel ‘300 di Dante, all’apogeo del Medioevo dei Comuni, nascono i Ricettari che ereditano gli splendori culinari iniziati dal manuale scritto in latino da Apicio fra il I secolo a.C. e il I secolo d. C. .
Nell’Italia del Nord era molto seguito il “Cuciniere” di Maestro Martino da Como considerato il miglior ricettario del Trecento. Ben presto intorno a Martino si formerà una scuola “cuciniera padana” e nell’ambiente tosco-laziale prende forma una tradizione culinaria aristocratica impostata sulla natura rigidamente gerarchica della società e si affermano i ricettari per le tavole dei ricchi e i pranzi di rappresentanza. Altro prezioso ricettario del tempo è di un anonimo toscano “Libro della Cocina” 1304 . Ed è di un anonimo trecentesco della Corte Angioina “Liber de Coquina” scritto fra il 1285 e 1309 destinato sempre ai cuochi di professione al servizio dei ricchi e potenti signori del tempo, gli unici del resto che potevano permettersi sontuosi banchetti. Ma è anche il tempo in cui cresce sempre più il divario fra la cucina ricca e quella povera.
Anche solo nel colore e nella qualità del pane, che scendendo nella scala sociale diventa sempre più grezzo, più scuro e con più crusca, si poteva “leggere” la condizione economica del popolo. La lentezza dei trasporti e le inefficienti tecniche di trasformazione e conservazione agroalimentare rendevano difficili, oltre che estremamente costoso, il commercio di cibi su lunghe distanze; addirittura alcune normi sociali e leggi prescrivevano che il cibo della classe lavoratrice fosse meno raffinato, perché si credeva che esistesse una affinità naturale tra il lavoro di una persona e il suo cibo ed il lavoro manuale meritasse cibi più scadenti ed economici.
Quelli di ceto modesto, fra una carestia e l’altra, mangiavano come potevano, prevalentemente pane scuro, verdure di campo, legumi, raramente carne e verosimilmente due volte al giorno: “il Desinare al mattino e il Cenare alla sera”.I ricchi mangiavano tre volte al dì e potevano aggiungere “la Merenda a metà giornata”. Ma dobbiamo alla capacità dei poveri di saper rendere appetitosa pure la miseria alcune specialità che ancora oggi fanno parte della nostra migliore tradizione culinaria. Nell’Alto Medioevo l’alimentazione romana che aveva preso e appreso molto da greci e arabi si contamina con quella dei Barbari che dal Nord Europa fanno arrivare sulle nostre tavole: burro e “cervogia” ( quella specie di birra di origine gallica, senza luppolo, fatta con orzo o avena fermentata) e l’uso abbondante di carne, simbolo di forza e potenza secondo la mitologia germanica. Molte, comunque, erano le differenze nei vari territori dovute a condizioni climatiche, geografiche, politiche, economiche oltre che ad abitudini influenzate anche da popoli diversi.
Nel tardo Medioevo iniziò a svilupparsi una forma di Haute cuisine tra la nobiltà di tutta Europa e l’impiego dell’ “agreste” (succo acido ricavato da uve non mature unito al miele e successivamente allo zucchero) che permetteva di conservare i cibi e dava ai piatti un sapore agrodolce. Dolce e salato si mescolavano come nella vita! Lo zucchero, raro e costoso, fu introdotto già nell’ XI sec. dai veneziani e dai genovesi con il nome di “sale arabo” o “sale dolce”. Come risulta dai ricettari del Trecento lo zuccherò entrò nella preparazione di molte vivande destinate alla tavola dei ricci, ovviamente! In Sicilia gli Arabi lo avevano già fatto conoscere intorno all’anno mille insieme a dolci squisiti e a tante altre bontà e sulle tavole dei ricchi anche del Centro -Nord cominciano ad arrivare dal Sud confetti, torroni, marzapane. La multiculturalità dona sempre grandi frutti!
Più la cucina dei ceti abbienti diventa ricca e raffinata e più si apparecchia la tavola con tovaglie ricamate, vasellame, argenteria, e qualche posata (i fiorentini rivendicano anche l’invenzione, in questo periodo, dell’antenato della forchetta) secondo le indicazioni del “Libro di Buoni Costumi” del fiorentino Paolo De Certaldo. Sulla loro tavola era presente cacciagione “cervi, cavrioli, cinghiari” provenienti dalle loro terre. L’uso di sale e spezie sulla cacciagione era apprezzatissimo” si legge nella ricetta “Peperata di Salvaticina da Folgore di San Gimignano” o accompagnata da “ salsa agliata”. Il lardo e lo strutto erano alla base dei condimenti mentre l’olio, o come veniva chiamato allora, il “Liquore degli ulivi” era usato per il “ mangiare di magro”.