La Statale Numero 9
Ultraoltre. Pagine e personaggi da scoprire lungo la via Emilia
If you ever plan to motor west / Travel my way, take the highway that is best /Get your kicks on route sixty-six. Chissà cosa ne sarebbe oggi della leggendaria route 66, quella che Steinbeck ribattezzò la mother road americana, senza la voce di Nat King Cole e le pagine di On the road, uno dei romanzi più citati e più sopravvalutati dell’intero novecento. Forse solo un nostalgico resoconto folcloristico, tra atmosfere da selvaggio west e polverose memorabilia, roboanti luci al neon e fatiscenti motel con affascinanti storie da raccontare.
Ma ogni luogo ha bisogno di un qualche cantore per reggere la forza d’urto del mito. Noi uno Steinbeck non lo abbiamo mai avuto e nemmeno una highway lunga 2300 miglia, percorsa negli anni Trenta, in seguito al Dust Bowl, da numerose famiglie rurali che cercarono fortuna e migliori opportunità ad Ovest, fino a divenire a partire dal secondo dopoguerra la strada simbolo di una certa idea di libertà. Molto made in Usa.
Però una sorta di strada madre l’abbiamo anche noi. È più modesta in termini di lunghezza, poco più di 250 chilometri, ma compensa con gli anni di storia, più di duemila, visto che fu costruita ventidue secoli fa dal console romano Marco Emilio Lepido. Nel linguaggio burocratico porta il nome di strada statale numero 9 ma per tutti è semplicemente la via Emilia, una lunga striscia di asfalto piatta (altitudine massima 71 metri) e con rarissime curve che collega Rimini e Piacenza, tiene assieme nell’immaginario una ventina di città grandi e piccole e potrebbe essere raccontata, con un pizzico di provocazione, come un’unica grande megalopoli regionale.
«LA VIA EMILIA comincia senza un cenno, travestita e ignota, circondata da una sovrana indifferenza», scrive Carlo Donati in apertura di Strada Nove, un gran bel libro composto da due volumi (Affinità Elettive + Cattedrale editori) che ripercorre la storia dell’antica strada consolare romana attraverso un viaggio, probabilmente durato anni, se non decenni, che è al tempo stesso culturale, fisico, storico e geografico. E che tiene dentro anche il racconto di un pezzo di storia d’Italia novecentesca, tra consorterie letterarie, storie del Partito che fu, bar periferici dove si gioca ancora a briscola e piccoli grandi storie di seducenti briganti e impenitenti anarchici. Ricordandosi però che per ogni «mangiaprete c’è sempre una chiesa a ristabilire l’ordine gerarchico della vita». Per maggiori referenze, rivolgersi a Giovanni Guareschi.
Si parte dal Ponte di Tiberio, in uscita dal centro di Rimini, dove la consuetudine fa risalire l’originario punto di partenza. E subito le atmosfere del viaggio si fanno irrimediabilmente felliniane, e quindi poco reali. A Rimini il mito del regista resiste nell’immaginario, visto che il ragazzone fuggì con una valigia di cartone appena dopo la maggiore età e nella luccicante riviera non girò neanche un fotogramma. Non era un capriccio, semplicemente il dato emotivo contava più della realtà. Quando Giuseppe Rotunno, direttore della fotografia, osò posizionare un getto d’acqua davanti alla prua del Rex per dare l’impressione del movimento della nave, Fellini lo interrogò preoccupato: «Non sembrerà mica vera?».
Uscendo dalla provincia di Rimini in breve si attraversa il Rubicone, un tempo il confine tra l’Italia e la Gallia, dove Giulio Cesare pronunciò secondo Svetonio la fatidica frase «Il dato è tratto», e si entra in modalità Romagna Mia, perché Savignano sul Rubicone è la patria di Secondo Casadei, l’uomo che riuscì a trasformare «le ballate del folclore romagnolo in musica nazional-popolare». Da far eseguire, chiedono i morituri specificandolo espressamente nel testamento, anche ai propri funerali. Il liscio in Romagna come i funeral blues a New Orleans. Altro che 66.
POCHI SONO i chilometri che separano un luogo da un altro, troppe invece le storie da raccontare. Carlo Donati non se ne perde una, sempre con la curiosità del cronista e il respiro da scrittore, senza però mai prendersi troppo sul serio. Fa una piccola deviazione verso San Mauro, dove un colpo di fucile segnò il destino di Giovanni Pascoli, si reca a Cesena per raccontarci le gesta di Alberto Rognoni, l’amico di Fellini che «rischiò di fare il vitellone, ma poi fece ciò che sapeva fare meglio: Il Conte», trovando però il tempo di salvare il Guerin Sportivo dalla bancarotta fino a trasformarlo in un settimanale di successo, a cui collaborò anche Gianni Brera, e infine si dirige verso l’abbazia di Santa Maria del Monte, in cima a un piccolo colle che guarda la città, dove al suo interno, tra una galleria di ex voto, spunta un piccolo quadro a olio dedicato a Marco Pantani, raffigurato in maglia rosa. Una lunga didascalia recita: «Perché non cadiamo nell’abisso della disperazione, perché non affondiamo nelle nostre sconfitte». Difficile dimenticarsi la frase che il pirata disse a Gianni Mura: «vado più veloce per abbreviare la mia agonia».
Ogni tappa naturalmente una sosta, alla disperata ricerca di qualche osteria che non esiste più o di qualche bar sport lungo la via, solo per confermare che da quelle parti le paste sono sempre quelle indigeribili della mitica Luisona di Stefano Benni. Ma non c’è tempo per la nostalgia. Bisogna fare a tappa a Forlì, quella che doveva diventare la città del Duce, il figlio del fabbro di Predappio. «La via Emilia entra in Forlì attraverso piazzale della Vittoria. Se non imperiale la scenografia è certamente littoria», scrive Donati, ricordando come i forlivesi non si siano precipitati a «scalpellare il ventennio» dopo la fine del regime. Basterebbe andare in piazza Saffi per verificare che sulle basi di bronzo dei quattordici lampioni che circondano la piazza forlivese per antonomasia sono rimasti intatti i fasci, e la data, nonostante nell’agosto del ’44 proprio a quei lampioni vennero appesi quattro partigiani in segno di disprezzo.
SIAMO VICINI al confine simbolico, ma mica tanto, tra Romagna e l’Emilia. Sogno e realtà. La via Emilia sembra quasi volare sopra l’autodromo di Imola, dove un monumento dello scultore Stefano Pierotti ricorda il fatale incidente di Ayrton Senna alla curva del tamburello, e in una manciata di chilometri raggiunge Bologna, «arrogante e papale, rossa e fetale».
Quante Bologna ci sarebbero da raccontare. Quella della banda dei ragazzi del Mulino, la leggenda vuole che se spari con una 357 magnum contro un loro volume il proiettile non arrivi a pagina 10, quella del movimento del ’77, quella dei cantautori – ciao Lucio – quella dotta dell’università più antica d’Europa, dove studiarono Dante e Petrarca e i professori avevano i nomi di Roberto Longhi, Giosuè Carducci e Umberto Eco, e naturalmente la Bologna del Pci, quella della grande stagione dei sindaci, Zangheri in testa, finita persino sulla copertina del Time come esempio mirabile della via italiana al socialismo.
Ma Bologna in fondo è sempre stata una città di mercanti, morbida ma non eccessivamente tollerante, che si è sempre lasciata guidare da quello che Edmondo Berselli chiamava «lo spirito autoctono della praticità». Non è un caso che ai bei tempi, mentre a Roma nelle fumose stanze di Botteghe Oscure i dirigenti passavano ore a riflettere sull’ultimo articolo di Pietro Ingrao uscito su Rinascita, sotto le due torri si pensava più a rimboccarsi le maniche, secondo il vecchio detto di un sindaco emiliano: «se apre una cazzo di fabbrica il socialismo avanza più di quando una fabbrica chiude». Stavolta un po’ di amarcord è tollerato.
Il viaggio di Donati, implacabile, prosegue. Si attraversa la terra dei motori, quella sì ancora rossa, si fa una breve sosta a Modena, «piccola città bastardo posto», per rendere omaggio ai luoghi di Fra la via Emilia e il West, e si va al cimitero a trovare Pier Vittorio Tondelli, che in Autobahn, racconto finale di Altri Libertini, immagina in una sola giornata di entrare in autostrada a Carpi e di uscire «sul mare del Nord, diciamo Amsterdam, senza fare una sola curva».
Il primo a leggere i racconti dell’autore di Camere Separate e a spedirli a Feltrinelli fu Nino Nasi, storico proprietario della libreria del Teatro di Reggio Emilia, per lungo tempo considerata la città più rossa del mondo occidentale. Forse è anche per questo, vuole la vulgata, che il Governo Tambroni abbia scelto proprio Reggio come banco di prova per sperimentare nel luglio del ’60 una feroce repressione, che lasciò sull’asfalto ben cinque corpi, oltre a numerosi feriti. Per farsi un’idea di quel che accadde si può leggere Noi la farem vendetta, il bel resoconto letterario scritto da Paolo Nori, che all’epoca dei fatti non era ancora nato.
C’E’ ANCORA tempo per un passaggio a Parma – come non rievocare quella che Pasolini chiamò l’officina parmigiana, dove una nutrita pattuglia di giovani intellettuali (Attilio Bertolucci, Ugo Guanda, Pietrino Bianchi, Oreste Macrì), seduta nei caffè di piazza Garibaldi, discuteva clandestinamente di Garcia Lorca e declamava le poesie di Antonio Machado – e poi una veloce ma significativa incursione a Brescello, diventata la capitale del Mondo piccolo, grazie alla saga letteraria di Peppone e Don Camillo. In fondo la via Emilia potrebbe anche essere sintetizzata cosi: da Fellini a Guareschi. Ancora, sogno e realtà.
Arrivati a Piacenza, non resta che da risolvere un ultimo ma mai banale quesito: che tipo di colonna sonora portarsi dietro. Certo, non abbiamo Nat King Cole, ma la via Emilia è lastricata di ottima musica, blues, folk, rock, opera lirica. C’e’ solo l’imbarazzo della scelta, dagli Skiantos al maestro Guccini. In caso di particolare buon umore, si potrebbe anche azzardare con Emilia paranoica, contenuta nel I album di quella grande punk (e rock) band che è stata i CCCP: Emilia di notti agitate per riempire la vita / Emilia di notti tranquille in cui seduzione è dormire / Emilia di notti ricordo senza che torni la felicità /Emilia di notti d’attesa di non so più quale amor mio che non muore / E non sei tu, e non sei tu, e non sei tu / Emilia paranoica.
A cura di Giuliano Malatesta
(da Il Manifesto ALIAS di sabato 17 luglio 2021)