Lo scorso 20 ottobre 2022 è stato intitolato il Lungomare di Milano Marittima ad Antonio Batani, “Tonino”, per tutti. Era nato a Bagno di Romagna nel 1936 e scomparso nel 2015 a 79 anni.
Emigrò in Svizzera per fare il cameriere, tornò ed aprì nel 1950 una pensione a Cervia e da lì, pochi anni dopo, prende inizio la sua folgorante ascesa che lo porterà ad essere titolare di ben dodici alberghi, tra cui il Grand Hotel di Rimini, il Grand Hotel da Vinci a Cesenatico e il Palace Hotel di Milano Marittima ora guidati da Paola Batani, figlia di Tonino e titolare del Gruppo Batani Select Hotels
Definito “il re dei cinque stelle della Riviera romagnola” ha trascorso una vita esemplare di padre e di imprenditore. L’ho conosciuto al Grand Hotel di Rimini, grazie all’amicizia comune con Vanni e Lina Dolcini, ed in tanti anni ho sempre apprezzato, insieme alla mia Valeria, la sua grande umanità e gentilezza. Un vero gentiluomo!
Tornando alla cerimonia, sul Lungomare di Milano Marittima erano presenti il Prefetto di Ravenna Castrese De Rosa, il Sindaco di Cervia Massimo Medri, il Presidente del Consiglio comunale di Cervia e Delegato alla Sicurezza della Provincia di Ravenna Gianni Grandu oltre a Paola Batani con i familiari e diverse autorità provinciali e locali.
Il Lungomare Batani
Parte dal Porto canale di Cervia e arriva al canalino di Milano Marittima è uno degli esempi di riqualificazione urbanistica più significativa degli ultimi tempi e fu proprio Antonio “Tonino” Batani, che per primo la avviò, investendo risorse private, sistemando il tratto fra via Baracca e via Cimarosa.
Le dichiarazioni
Il Prefetto di Ravenna Castrese De Rosa ha affermato: “Quello che mi colpisce di Antonio Batani è la sua vicenda personale, un grande impenditore che viene dalla gavetta, da lavapiatti a direttore di un importante complesso turistico. Ci lascia un’immensa eredità e un modello per essere autentici imprenditori. Nulla nasce per caso. Prendiamo esempio tutti da questo pioniere”.
Il Sindaco di Cervia Massimo Medri: ”Antonio Batani è stato un grande e capace imprenditore, oltre che un amico, una persona che si è sempre occupata della città oltre che delle sue attività. Ha sempre creduto in questo territorio e si è moltoimpegnato pervalorizzarlo, ospitando personalità influenti e organizzando prestigiosi eventi come il “Premio Cinque Stelle” al Giornalismo, che ha portato nella nostra località importanti professionisti, italiani e stranieri, del mondo dei quotidiani e della televisione. Professionalità, qualità dell’accoglienza e ospitalità sono state, e sono, le parole d’ordine nei suoi alberghi. Per le sue capacità imprenditoriali e per quello che ha donato a questa città abbiamo deciso d’intitolare a lui il primo tratto del Lungomare di Milano Marittima. Loringraziamo con un gesto che sappiamo gli sarebbe gradito. Infatti è stato il primo imprenditore a sostenere il progetto di riqualificazione della fascia retrostante i bagni investendo risorse proprie per realizzare il primo tratto del nuovo lungomare di Milano Marittima, con la consapevolezza di rendere ancora più appetibile e accogliente la nostra località”.
Il Presidente del Consiglio comunale di Cervia e Delegato alla Sicurezza della Provincia di Ravenna Gianni Grandu: “Un grande onore portare il saluto del Presidente della Provincia di Ravenna e mio personale in questa giornata così importante, che mette al centro un uomo che ha voluto bene alla sua città, che è diventato imprenditore partendo dal nulla e nel contempo ha mantenuto sempre una grande umanità e modestia. Tonino merita questo riconoscimento per la sua famiglia e per il lungimirante lavoro che lo ha contraddistinto nelle sue scelte sempre consapevoli e nell’interesse della comunità turistica”.
Le parole di Paola Batani, figlia di Tonino e titolare del Gruppo Batani Select Hotels: “Io e la mia famiglia siamo molto contenti che il lungomare venga intitolato al babbo. Mio babbo, infatti, ha creduto subito nelle potenzialità di Milano Marittima e dopo aver iniziato la sua attività da albergatore, assieme a mia mamma Luciana, a Cervia, sul lungomare, ha fatto di tutto per avere hotel anche a Milano Marittima. Quando realizzò il Palace Hotel, il primo 5 stelle di Milano Marittima, nell’ottica di offrire ai clienti un accesso pedonale diretto e accogliente alla spiaggia, propose al comune di realizzare a sue spese, il progetto di riqualificazione di tutto il lungomare, convinto che sarebbe stata la carta vincente di una località che già spiccava sulla riviera romagnola. Sarebbe stato molto contento di vedere, anni dopo, l’intero lungomare realizzato e messo a posto, perché a lui piacevano l’ordine e il decoro. Anche questo, per lui, faceva parte del fare bene il mestiere che poi ci ha trasmesso, con passione, quello dell’albergatore. Ringrazio quindi a nome mio, di mia mamma, Luciana e di mia sorella Cristina, l’amministrazione comunale che oggi intitola questa splendida passeggiata alla memoria di un uomo che ha speso la sua vita per il turismo e che amava Milano Marittima”.
Il profilo di Tonino Batani, Re degli albergatori della Romagna: è stato l’ideatore del Premio 5 Stelle al Giornalismo e patron del Grand Hotel Rimini
Nato a Bagno di Romagna nel 1936, Tonino era terzo di sei fratelli. A 14 anni, come molti altri suoi coetanei di quella generazione, va in Svizzera, ad imparare un mestiere. Fa il cameriere in un albergo di Saint Moritz per tornare in Italia, a 21 anni e trasferirsi a Cervia, dove nel 1950 prende in affitto la sua prima pensione. Ogni volta che ne parlava gli brillavano gli occhi. Si trattava la pensione Delia. Con lui lavorano due giovani cameriere. Diceva Tonino, con gli occhi lucidi, ma con quel suo fare divertito “Una me la sono sposata, per non pagarla”. Era Luciana Perugini, la compagna della sua vita. Assieme, dopo il matrimonio nel 1967, hanno acquistato un terreno a Pinarella dove è sorta la Pensione Batani. La struttura, però, non era di fronte al mare e quindi decise di venderla, per spostarsi più a valle. Perché per Tonino ai clienti bisogna dare qualità e vista mare, ottimo cibo e autenticità. Per questo, non soddisfatto, vende la pensione, che è arretrata di fronte al mare, e compra l’Hotel Universal, cinquanta stanze, in Viale Grazia Deledda.
Da lì a poco Antonio Batani decide di prendere in gestione l’Hotel Diplomatic, a Milano Marittima, località che, grazie alla sua intuizione, viene completamente rilanciata. Infatti Batani mette gli occhi su un altro Hotel maestoso, il Gallia, che prende in affitto nel 1983 e che compra 16 anni dopo. Nel frattempo, sono nati i suoi tre figli, Gianni (prematuramente scomparso), Cristina e Paola, tutti impegnati a seguire la strada paterna. Nel 1989 quando la Riviera soffre per quel fenomeno che ancora è indicibile, ovvero la mucillagine, di fronte allo sconforto generale dei suoi colleghi, Tonino parla di qualità e dà un segnale forte, inequivocabile di fiducia: compra l’Hotel Aurelia, uno degli alberghi più belli di Milano Marittima, con 108 stanze aperto tutto l’anno. Mancano ancora il Doge, che prende in affitto da lì a poco e l’hotel dei suoi sogni (forse perfino più del Grand Hotel di Rimini, che comprerà subito dopo), il Mare e Pineta. Ma è con l’acquisto di un vecchio albergo in centro a Milano Marittima, che Tonino corona un altro sogno, la realizzazione del primo cinque stelle a Milano Marittima. Nasce così nel 2005 il Palace Hotel, che inaugura con una festa nella quale riunisce tanti amici e personaggi della televisione, dello sport, consapevole che oltre alla qualità e alla maestosità della struttura serva per il rilancio di Milano Marittima anche la cultura. Nasce così il Premio “Cinque stelle al giornalismo”, ora “Premio Antonio Batani”, che nel corso degli anni ha premiato i migliori volti del giornalismo nazionale ed internazionale.
L’intitolazione del lungomare di Milano Marittima è un segno importante dato da Cervia al mondo del turismo: la qualità premia. Tonino Batani resta un faro per il mondo ricettivo italiano e internazionale. Oggi il Gruppo Batani Select Hotels, guidato dalla figlia Paola Batani, compete infatti a livello nazionale e internazionale con le migliori realtà dell’hôtellerie di lusso.
8 giugno 2008 su La Repubblica
Cento anni da Grand Hotel
di Michele Smargiassi
RIMINI – Non c’ è: il pianoforte bianco non c’ è. Non ci starebbe neppure: dalla porta al minuscolo balconcino saranno cinque o sei passi. L’ immensa stanza del sultano con tutto il suo harem allora dove sarà? Qui c’ è solo, incorniciato, un piccolo arazzo con danze di bajadera. Non c’ è neppure il letto rosso a baldacchino dal quale la Gradisca invitò timidamente il Principe: «Maestà, gradisca…»; ma un sobrio due-piazze con testiera in paglia di Vienna. Nel salottino attiguo, divanetto e seggiole con seduta di velluto, e clamorosamente incongrua una poltrona di pelle verde. Se ha un fascino, la suite 315 del Grand Hotel di Rimini, la preferita di Federico Fellini, è la sua atmosfera borghesemente dimessa e demodé. Contraddetta da due giganteschi monitor al plasma: «I clienti li chiedono…», si scusa Cristina Bernagozzi, la giovane vice-direttrice. Una notte per dormire dove Fellini ha sognato costa 960 euro, ma c’ è la lista d’ attesa. Tra tutte le 117 camere dell’ edificio principale, una diversa dall’ altra, gli americani chiedono solo quella, la 315. Con la stessa cifra potrebbero pagarsi lussi maggiori, ma nessun altro nel prezzo include il mito. Specchiarsi in questa specchiera liberty a petalo d’ orchidea, dove il Maestro si guardava in faccia ogni mattina (l’ ultimo a riuscirci, perché il fondo d’ argento è ormai corroso da macchioline). Bagnarsi nella stretta vasca tra i marmi neri venati del bagno. L’ intonaco un po’ si solleva, ma i clienti, soprattutto gli inglesi, vanno in visibilio per «i segni del tempo», adorano gli infissi che non chiudono e pagano il conto felici.
Cent’ anni sono tanti anche per l’ albergo più famoso del mondo. Ma il Grand Hotel, nonostante il suo aspetto pannoso da gran torta saint-honoré, ha la scorza dura. Non molla, la vecchia signora. Ha resistito a mille ingiurie, guerre, incendi, all’ infedeltà dei suoi molti pigmalioni.
Negli ultimi cinque anni ha cambiato quattro volte proprietario, ogni volta rischiando grosso, venduta e svenduta, gestita da amministratori giudiziari, oggetto di Opa amichevoli e ostili, ridotta a garanzia per titoli atipici; ha avuto duemila padroni in un colpo solo (gli azionisti-creditori lasciati in un mare di guai dal crac dello speculatore Cultrera), è stata in braccio all’ ultimo dei “furbetti del quartierino”, l’ immobiliarista Coppola; eppure, come la Teresa Batista di Amado, è rimasta sempre miracolosamente vergine, pronta a darsi con tutto il cuore al nuovo principe azzurro. Che è sceso appena in tempo da cavallo per baciarla, lo scorso dicembre, alla vigilia del compleanno a due zeri che rischiava di festeggiare davanti a qualche ufficiale giudiziario, e invece si celebrerà la sera del 3 luglio con quattrocento invitati, quartetti d’ archi, champagne e l’ intera facciata trasformata in un grande schermo su cui scorreranno sequenze dei film, indovinate di chi? è arrivato appena in tempo questo principe azzurro basso di statura, settantadue primavere sulle spalle, ma lo sguardo del romagnolo deciso, da Passator Cortese.
Si chiama Antonio Batani: è il cameriere che s’ è comprato il Grand Hotel. Eccolo, minuscolo tra le grandi colonne della hall, mano tesa e bel sorriso soddisfatto: «Sono cinquant’ anni che faccio la corte a questa signora». Ora gli ha detto sì. «Non se ne pentirà. Non ho comprato il Grand Hotel per rivenderlo, o per tenerlo come un titolo di Borsa. L’ ho comprato perché è il Grand Hotel».
Cosa fosse il Grand Hotel negli anni Cinquanta per un ragazzetto figlio di contadini sceso da Bagno di Romagna a cercare fortuna nella capitale delle vacanze, è facile immaginarlo. Tonino ci passava e ripassava davanti in bicicletta e brontolava: «òs-cia s’ lé bèl, chissà quanto costa». Ora lo sa: dicono 65 milioni. è una sfida: «Adesso deve tornare a rendere, non è possibile che un albergo così fosse in perdita». A Rimini sono contenti che la vecchia signora abbia trovato finalmente un buon partito, e soprattutto che sia tornata a casa, in sposa a «uno di noi», un romagnolo come si deve, con la biografia giusta. Batani non è solo un imprenditore del turismo: è il condensato, la metafora della storia del turismo in Riviera. A ventidue anni in Svizzera, studente di scuola alberghiera di giorno, cameriere di sera per mantenersi. Al ritorno, coi magri risparmi di papà Sante, affitta a Cervia una pensione dal nome che è un distillato di pensionità: “Delia”, sedici camere e quattro bagni. Poi, anno dopo anno, la scalata alle stelle. Il primo alberghino in proprietà, l’ Hotel Batani: «Errore, gli alberghi non devono avere nomi da uomini, ma di donne, o di sogni». Da due stelle a tre, a quattro. Oggi Antonio Batani è proprietario di una catena di dieci alberghi, la “Select Hotels”, due dei quali a cinque stelle. Ma continua a firmarsi “famiglia Batani” come fosse ancora il gestore della pensione Delia, al cui bureau incontrò Luciana, sua moglie, che gli ha dato due figli che lavorano con loro.
Continua a fare il giro, tutte le sere, dei suoi hotel, entrando dalla porta sul retro, cogliendo di sorpresa il maître, controllando la pulizia in cucina. Farà così anche qui? «Soggezione non ne ho. Paura, un po’ . Questo non è un albergo come gli altri». Certo che no. è un monumento nazionale, vincolato dalle Belle Arti nel 1994. Difficile metterci mano. L’ ascensore, ad esempio, ha una porta di appena sessanta centimetri: ma i muri non si possono toccare. Un affezionato cliente disabile s’ è fatto fabbricare una carrozzina su misura per poterci entrare. Scordarsi le scenografie di Amarcord: quel Grand Hotel fiabesco era quasi interamente ricostruito a Cinecittà. Quello reale, ad esempio, non ha il sontuoso scalone di marmo a forma di arpa, ma una scala quadrata, con un’ elegante ringhiera liberty, ma non più larga di quelle di un normale condominio.
Ma è il Grand Hotel, non un albergone da parvenu di Las Vegas. Il suo fascino sta nei dettagli, non nella metratura. Nei mori settecenteschi di legno scrostato che reggono le lampade, nei comò francesi delle tre suite regali, nei pavimenti di veneziana sui toni del rosa, nelle cabine telefoniche che sembrano bianchi confessionali art déco. Nella scelta un po’ snob di girare al mare il fianco sinistro, la facciata che sbircia solo di sbieco la costa e cerca invece all’ orizzonte la rocca di Gradara, quella di Paolo e Francesca. Né i danni della guerra, né i delitti architettonici perfino peggiori di molti suoi ex padroni l’ hanno sfigurato irreparabilmente. Biacche marroncine sulle pareti della sala delle quattro colonne, sul civettuolo “marmorino” dei corridoi e perfino sulle colonne monolitiche della hall. Orripilante alluminio anodizzato nella veranda ristorante.
Batani ha già cominciato a togliere intrusioni e ripristinare i rivestimenti e i colori originali (avorio, bianco e oro). Sul muro del corridoio che porta alla Sala Verde c’ è una macchia nerofumo: diamo una pitturatina? «Per carità», insorge Cristina, «questo è un reperto storico, è l’ ultima traccia dell’ incendio del 17 luglio 1920, forse la metteremo sottovetro».
Misterioso incendio. Nel 1915 a Rimini era bruciato l’ Hungaria, l’ hotel dell’ aristocrazia asburgica, qualcuno sospettò un gesto irredentista. Anche il Grand Hotel aveva una clientela altolocata e mitteleuropea, ed era da poco finita la Grande guerra. Mah. I romagnoli son garibaldini. Fattostà che andarono in fumo le due cupole di legno catramato (Batani vuole ricostruire anche quelle) che davano al palazzo quel certo stile baltico.
Cent’ anni fa, oggi suona strano, i modelli dell’ eccellenza balneare venivano dai gelidi mari del Nord. Per cercare il suo posto al sole nella nascente industria delle villeggiature, Rimini dovette spacciarsi per anni come «l’ Ostenda d’ Italia». La cineteca comunale conserva ancora un cortometraggio d’ epoca, forse di Luca Comerio, cineasta pioniere, che porta quel titolo ed è forse il primo film pubblicitario balneare del mondo. Fu la lungimiranza e forse la testardaggine del sindaco Camillo Dupré a far iniziare la favola, quando nel 1906, dopo aver costruito a spese pubbliche il primo stabilimento balneare, il Kursaal, offrì terreni a poco prezzo a chi volesse costruire un grande albergo internazionale. Ma il mare, per i riminesi, era ancora solo una vasca piena di pesci. Si presentò un’ impresa di fuori, la Società milanese alberghi ristoranti e affini, quella del Biffi; il progetto lo firmò un architetto metà ticinese metà sudamericano, Paolito Somazzi; e i primi abitatori, all’ inaugurazione del primo luglio 1908, furono pressoché tutti illustri forestieri, duchi principi e ministri e perfino un’ ex regina, quella di Sassonia. Lingue ufficiali francese e inglese: al Grand Hotel ricco di ogni comfort si pranzava a uno dei cinque restaurant, e dopo qualche ora ai bains si sorbiva un apéritif al club des étrangers con un servizio di premièr ordre. A colorare in qualche modo il luogo di tinte italiche e un po’ machiste furono le imprese adulterine di Mussolini, che lasciata la povera Rachele nella modesta villa familiare di Riccione correva qui a incontrare Claretta in gran segreto, si fa per dire: motoscafi e uniformi, saluti romani e baciamani. La soglia della vetrata che porta dal bar alla piscina (la prima di tutta la Riviera) mostra le venature del legno, consumata da decenni di scarpine di lusso.
«Non voglio cambiare nulla, sarebbe un suicidio, voglio solo ritrovare l’ originale», medita Batani. «è più di un albergo, è lo scenario di una città». Di un paese intero, forse. Del suo immaginario. Senza la fantasia, il Grand Hotel sarebbe un relitto di veliero arenato. Una metratura edilizia ad alta rendita pronta alla conversione in residence. Hotel più lussuosi, ce n’ è ormai a bizzeffe. Ma c’ è di mezzo il Maestro. Bisognerebbe passare sul suo cadavere. Fellini ha trasferito di peso questi quattro piani di un liberty ordinario nelle regioni della fantasia, unico e irripetibile scenario di lussurie, malizie e narrazioni fiabesche. Scrisse: «Le sere d’ estate il Grand Hotel diventava Istanbul, Bagdad, Hollywood».
Chi lo frequenta non lo vede com’ è, ma come lo immaginò lui. Non furono certo il suo moderato charme né le sue comodità un po’ invecchiate a portare qui l’ imperatore Hirohito o lady Diana o il chirurgo gran viveur Christian Barnard, o Kissinger, Gorbaciov, Bush senior, il Dalai Lama. Nella lunga stagione, trentacinque anni, dell’ amico patron Arpesella, forse l’ unico proprietario che abbia rispettato lo spirito del luogo, Fellini era di casa tra questi marmi. Letteralmente: lo abitava tutto quanto, lo riempiva. Adagiato sui sofà del salone, col taccuino di schizzi in mano. Irrequieto in cucina, dove convinceva i cuochi a fargli spentolare un brodetto. E perfino nel bureau, seduto di fianco ai centralinisti, deliziandosi a ficcanasare tra gli affari sentimentali dei clienti, «Ah sì? Lui ha detto proprio così? E la moglie?». è un albergo abitato da un fantasma gentile, guai a chi lo volesse cacciare: crollerebbe, come la casa Usher.
Batani, Fellini non l’ ha mai conosciuto. Ma è come se fosse nato in un suo film. «I clienti», dice, «vanno trattati come dei signori, come dei sultani. Alla pensione Delia come al Grand Hotel. Rimini ha cominciato ad avere problemi quando i proprietari degli alberghi sono diventati più ricchi dei loro ospiti».
Il Grand Hotel, negli ultimi anni, s’ è riempito di russi arricchiti, un po’ cafoni, mance esagerate come la loro sicumera, Batani quasi cacciò via uno che fumava al ristorante maltrattando il cameriere che garbatamente gli ricordava il divieto. «Vorrei recuperare una clientela di classe». Vuole i sgnùr. Il suo slogan: Grand Hotel per grandi famiglie. Vuole i grandi imprenditori, i manager indaffarati che cercano un riposo di prestigio senza allontanarsi troppo dal consiglio d’ amministrazione. Vuole «i tedeschi, i miei cari tedeschi, i clienti ideali, mai una lamentela, grandi abbracci». Vuole il ritorno degli anni d’ oro della Riviera. La parola d’ ordine della Rimini del nuovo millennio, “de-stagionalizzare”, ossia riempire gli alberghi anche d’ inverno, con le fiere, i convegni, i congressi, Batani la capisce ma non la gradisce poi tanto. «La vera “stagione” è sempre stata una sola, l’ estate, la stagione dei bagni.
Se non curi l’ estate, non avrai l’ inverno», dice come la formica della favola, «e il Grand Hotel da un secolo è il più grande simbolo dell’ estate che sia mai esistito». Fino al 1968 apriva solo novanta giorni l’ anno, da giugno a settembre. Dopo, è caduto in tentazione. Quel “centro congressi” costruito nel ’92 mutilando il parco. Quel night club nei seminterrati, Lady Godiva, che del mare si fa un baffo, potrebbe stare anche a Courmayeur. Ma l’ immagine del Grand Hotel erano i tendoni a strisce sulla spiaggia, gli abiti di lino bianco, le sedie di vimini sulla grande terrazza, i cappelli di paglia e le cannucce da passeggio. Ha vissuto cento estati e non ha ancora conosciuto il suo autunno. Fu sicuramente per non disturbare “la stagione” che il Maestro, a cui il Grand piaceva anche d’ inverno, chiuso e immerso in una bambagia di nebbia, lasciò questo mondo nel mese piovoso, un 31 ottobre. Le tende di tulle della suite 135, quel giorno, furono viste agitarsi fuori dalle finestre aperte, come in un saluto.