Intervista a Natalka Vorozhbit a cura di Lucrezia Ercolani (il Manifesto 5 marzo 2022)
I russi avevano l’illusione che li avremmo accolti con dei mazzi di fiori» ci scrive dalla città di Lviv Natalka Vorozhbit, cineasta e drammaturga ucraina. Il nostro Paese l’ha conosciuta lo scorso anno, quando presentò alla Settimana della critica della Mostra del cinema di Venezia il suo primo lungometraggio Bad Roads – si sta tentando in questi giorni di portarlo nelle sale italiane – tratto dall’omonimo spettacolo teatrale. Vinse il premio per il film più innovativo della sezione, era composto da quattro scene di vita «ordinaria» ai bordi della militarizzata zona del Donbass, tematizzando in particolar modo la condizione femminile. Nello sguardo di Vorozhbit infatti la guerra c’era già, con tutto il dolore e la degradazione che porta con sé. Prima dell’invasione stava ultimando le riprese del suo nuovo film, Demons, anch’esso incentrato sulla relazione tra Russia e Ucraina. Le sue parole ci giungono come un grido incontenibile, lì dove si rischia la vita e non c’è tempo per le riflessioni «a freddo».
Dove sei attualmente e come hai trascorso gli ultimi giorni? Cosa ti spinge a rimanere in Ucraina ad affrontare i rischi?
Attualmente sono a Lviv, una città nell’ovest dell’Ucraina. È vicino al confine con la Polonia, quindi per il momento la situazione è tranquilla, tolti gli allarmi aerei che si susseguono regolarmente. Sono partita per Lviv il secondo giorno della guerra con mia madre, mia figlia e il mio gatto, quando ho saputo che l’aggressore stava provando a circondare Kyiv da tutti i lati. Non volevo essere intrappolata. Molti miei amici sono rimasi lì, non possono lasciare la città e aspettano nei rifugi antiaerei. Io ho dovuto guidare per 30 ore per percorrere solamente 500 chilometri e a molti è andata peggio, con viaggi che durano giorni. Dopo essere arrivata a Lviv ho provato a riprendermi dallo shock e ad essere utile come potevo, ma finora non sta andando molto bene. Tutti i miei pensieri sono lì, sulle strade di Kyiv, con la gente di Kyiv e persino con il mio appartamento a Kyiv, dove le piante avrebbero bisogno di essere annaffiate ma non c’è nessuno che possa farlo. La mia casa è ad un piano alto con una bella vista dalla finestra, una bomba può facilmente colpirla. Il padre di mia figlia ha imbracciato le armi per difendere la città, tutto quello che mi è caro è lì. Mi mancavano quattro giorni di riprese nella regione Poltava per terminare il mio nuovo film ma i russi hanno già conquistato quell’area. Ho girato per un anno e volevo finire il mio lavoro, continuo a filmare nella mia testa, mentre mi chiedo dove sono ora.
Nel tuo film precedente,«Bad Roads», mostravi come la guerra fosse già in corso e il suo impatto sulla vita delle persone: ti aspettavi un simile esito di questa situazione?
La guerra in Ucraina va avanti dal 2014, lo abbiamo urlato in ogni modo, ma tutti giravano la testa dall’altra parte. I media stranieri avevano paura di usare la parola «guerra», preferivano invece parlare di «conflitto» come se si trattasse di uno scontro interno e non il primo stadio della guerra della Russia contro l’Ucraina – che ha portato all’annessione della Crimea e poi del Donbass. È questa cecità ad averci condotto alla situazione attuale. Abbiamo temuto un’escalation tutti questi anni ma una guerra su questa scala era inimmaginabile nel ventunesimo secolo in Europa. La resistenza è stata una sorpresa solamente per i russi, noi eravamo ben consapevoli del potenziale e dell’attitudine della nostra gente, del nostro esercito e del governo. Gli aggressori sono diventati vittime della propria propaganda, e ora portano avanti il genocidio del popolo ucraino. Non sto esagerando nel definirlo così, vogliono eliminarci.
All’inizio dell’invasione russa hai firmato un appello collettivo con altri registi e registe ucraini, senti che il mondo del cinema e della cultura vi sta supportando adeguatamente?
È difficile per me avere un’idea chiara del grado di sostegno che stiamo ricevendo, sicuramente c’è ed è forte, ma in una situazione come questa non è mai abbastanza. La guerra potrebbe andare avanti ancora per lungo tempo, quindi chiediamo a tutti di non abbassare l’attenzione e di fare quanto è possibile – andare alle manifestazioni di protesta, aiutare economicamente, accogliere i rifugiati, aderire alle sanzioni contro la Russia, parlare, urlare, farsi sentire. Come è diventato chiaro per il mondo intero non stiamo combattendo solo per l’Ucraina. Due notti fa un razzo russo ha colpito la centrale nucleare di Zaporizhzhia, la più grande in Europa. Ci sono stati combattimenti per molte ore. Questo pazzo sta minacciando il mondo intero con il bottone nucleare, siamo tutti nelle sue mani, quindi sostenere l’Ucraina non basta; deve esserci la massima partecipazione a questa battaglia.
Molte istituzioni culturali hanno deciso di bandire gli artisti russi. Approvi questo tipo di strategia?
Sì, assolutamente. Tutto quello che sta accadendo succede anche per il loro tacito consenso o per un dissenso rimasto però silente. I migliori tra loro sono quelli rimasti zitti! La cultura gioca un ruolo cruciale nella formazione dell’opinione corrente e in questi ultimi vent’anni in Russia la maggioranza pensa che dobbiamo essere cancellati dalla faccia per la terra. Questa attitudine è anche una loro responsabilità.
Stanno giungendo però anche le voci dei russi contrari alla guerra, tra cui diversi registi che si espongono nonostante i rischi. Pensi sia possibile instaurare un dialogo con loro?
Le loro parole di supporto arrivano troppo tardi, le abbiamo aspettate per molto tempo. Meglio tardi che mai, certo. Ma i rischi che corrono loro sono nulla rispetto a quelli che affrontano ora gli ucraini ogni minuto che passa. Non provo empatia nei loro confronti e non penso che attualmente serva alcun dialogo, sarebbe inutile, dobbiamo prima vincere la guerra e poi si vedrà.
Nel tuo film mostravi come la militarizzazione del Donbass ha portato miseria nella vita degli ucraini stessi. Cosa pensi che genererà questa guerra nella società del tuo Paese?
Kharkiv, Chernihiv, Kherson, sono città bellissime, ricche di storia. Le stanno bombardando e cancellando dalla faccia del pianeta, stanno morendo migliaia di civili. Questa guerra non può che unire gli ucraini in un sentimento di odio per la Russia. Chiaramente ci rende infelici, ci porterà dei traumi, tutti hanno già perso qualcosa in questo scontro. Quando sarà finito, scriveremo e faremo film sulla guerra ancora per decenni, dovremo curare le nostre ferite. Ma oltre all’odio, c’è un grande amore e gratitudine gli uni per gli altri in Ucraina, una consapevolezza del nostro valore e l’importanza della sovranità del nostro Paese. Io credo che nonostante tutte le nefandezze che la guerra produrrà, il risultato sarà la nostra unità e auspicabilmente l’indipendenza dalla sfera di influenza russa.
Secondo te esisteva un modo per evitare tutto questo dolore e morte?
Certamente. Se nel 2004 e poi nel 2014 non ci fossimo ribellati contro il protetto di Putin, Yanukovych; se fossimo entrati in un’unione commerciale con la Russia, se avessimo chiuso le nostre strade verso l’Europa. Avremmo perso la nostra sovranità, rinunciato alla democrazia e oggi avremmo un dittatore alla testa del Paese, con lo stesso status della Bielorussia. Tutti sarebbero vivi adesso. Ma si sarebbe potuta chiamare vita?