La storia la scrivono le persone, sempre e comunque, nel bene e nel male, con l’amaro in bocca o la gioia nel cuore, con il sangue e il sudore, con la fede e la speranza.
Quella che vi racconto oggi è una storia dal sapore acidulo, che schiaffeggia l’anima per la sua durezza, che fa pensare ai giorni nostri con la sconcertante consapevolezza che dalla storia non sempre si impara; non sempre se ne fa tesoro e troppo velocemente la si dimentica.
Siamo all’incirca alla metà del 1800, la stagione è quella autunnale e l’inverno, rigido e severo, non è poi così lontano.
Nelle vallate valdostane, nella Savoia, nel Canton Ticino il pane inizia a scarseggiare ed è in questo frangente dell’anno che i genitori accompagnano i loro bambini dal couèitse. Sono bambini che hanno 7-8 anni mentre il couèitse altro non è che un ragazzotto poco più grande al quale viene riposta la fiducia delle famiglie in quanto trattasi di un soggetto serio, onesto e integro.
E’ lui che accompagna i pargoli in Francia, in Svizzera o in Piemonte, là dove nei paesi e nelle città tra poco i camini riprenderanno a riscaldare le case e per il loro buon funzionamento è necessaria un’ottima pulizia in modo tale che il tiraggio sia funzionale.
I bambini vengono accompagnati su dei carri trainati da muli, quelli che arrivano a Torino parlano solo il patois e soltanto quelli più grandicelli conoscono il piemontese. Arrivano in città per fare gli “spazzacamini”, ci resteranno 6-7 mesi e poi torneranno a casa. In cambio del loro lavoro il couèitse si impegna a fornire ad ognuno due libbre (780 grammi) di pane ma, se vorranno della minestra o meglio ancora della carne, la dovranno elemosinare nelle case in cui andranno a raschiare il camino. Quel pane è il gran-dzou, il grande pane.
Le loro famiglie, al rientro dei ragazzetti, riceveranno anche qualche soldo, 25-30 lire, paragonabili alle 120 mila lire del 1986.
Arrivano quasi tutti con tre camicie di tela spessa e ruvida e un berretto che li riparerà dalla fuliggine durante le giornate di lavoro. Alla partenza in genere le mamme si preoccupano di fare alcune raccomandazioni ai bimbi: pregare al mattino, non prendere il vizio del fumo e non finire sotto le carrozze (po se fée écrasé i bou). La città è divisa in quartieri e in zone e per ogni zona c’è una squadra di (gaillo) spazzacamini.
Il capo squadra (cap-gaillo) è solitamente un ragazzotto di 15-18 anni, ormai troppo grande per passare attraverso i camini, il suo lavoro è quello di sorvegliare i piccoli lavoratori, pulire gli arnesi dei focolari e raccogliere la fuliggine che verrà rivenduta come fertilizzante.
E’ chiaro che il lavoro più duro spetta agli spazzacamini che devono arrampicarsi all’interno dei camini servendosi di mani, piedi, gomiti e ginocchi.
E’ nei camini più ampi che si possono sfruttare le pietre che sporgono, mentre per la salita hanno sempre con se la raspa (rîhllia) che serve a scrostare la fuliggine formatasi l’inverno precedente. Quando lo spazzacamino arriva alla cima del fornello grida per tre volte: spaciafournel.
E’ il segnale che indica che il lavoro è terminato e che può ridiscendere: un solo bimbo può arrivare a pulire anche quindici camini al giorno.
Chiamano la fuliggine come la neve (beuillourne) e dormono sulla paglia in stanzoni o soffitte affittate dal capo. E’ un lavoro sporco e pericoloso, decisamente schifoso, la fuliggine intasa i polmoni e le conseguenze sono bronchiti, polmoniti, tubercolosi, senza contare gli incidenti che portano alla morte se si cade dal camino. Un gruppo di spazzacamini valdostani di 24 elementi in pochi anni ne ha già persi 9.
Oltre al duro lavoro c’è la vita della città che non è certo dolce e sensibile nei loro confronti, sono bambini piccoli che arrivano dalle montagne, ingenui e privi di malizia e devono vedersela con i più grandi che anche loro lottano per sopravvivere.
A Torino i bambini lavoratori sono tantissimi, solo al grande mercato di Porta Palazzo tutti i giorni se ne contano un migliaio che attendono qualcuno che li porti nelle officine, nei cantieri, nelle botteghe, sono sporchi, alcuni non hanno neanche le scarpe, arrivano dai paesi del Piemonte e di altre regioni d’Italia. Vengono maltrattati, sfruttati e mal pagati; arrivano a lavorare anche 14 ore al giorno e se per caso vengono arrestati per qualche marachella finiscono in carcere con gli adulti. Ma sono solo dei bambini!!!
Questa è la storia di oggi, cruda, spietata, maledettamente vera e crudele in una Torino in cui la pietà non esisteva neanche per i più piccoli.
Fu in quel momento storico che emerse una delle più belle figure della storia Sabauda, un uomo, un prete che ai ragazzi dedicò la vita: don Bosco. Quando Giovanni Bosco incontrò per la prima volta in piazza San Carlo i volti neri degli spazzacamini scrisse: ”Era nera la loro faccia, ma quanto bella la loro anima”.
Chissà oggi chi, adulto e non bambino, sarebbe disposto a tutto ciò per il pane grande???